Le Cause dell'Emigrazione postunitaria nel Sannio

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emigrazione

Proponiamo ai nostri lettori la relazione del  Dott. Alfredo Rossi presentata alla tavola rotonda: "Il contributo del Sannio all’emigrazione italiana", organizzata  dall’ASMEF e dall’associazione Ecoitaliani a Ceppaloni il 24 Luglio.


Il fenomeno dell’emigrazione ha avuto un impatto straordinario nella storia italiana. Risulta difficile tentarne una ricostruzione, sia perché le ondate migratorie hanno avuto origini ed andamenti diversi, a seconda del periodo storico e sia perché ha rappresentato un dramma, un dolore collettivo da rimuovere. Nella ricorrenza dei 150 anni dall’unità d’Italia corre l’obbligo di tracciare, almeno per grandi linee, le motivazioni economiche e sociali che portarono tanti nostri conterranei a trovare nella “grande fuga†la soluzione al problema della miseria, che specie nel Mezzogiorno aveva radici antiche.

Prima di illustrare le cause dell’emigrazione nel Mezzogiorno ed in particolare nella realtà della provincia sannita risulta di fondamentale importanza ricordare il contesto economico e sociale nel quale si trovava l’Italia del dopo unità. E’ ormai un dato di fatto acquisito dagli storici di ogni tendenza che la politica dello stato unitario aggravò le disuguaglianze esistenti tra i vari stati in cui era suddivisa l’Italia prima dell’unificazione: il regno di Sardegna, lo stato Pontificio, il regno delle Due Sicilie, il granducato di Toscana, per citare i principali. La situazione era fortemente diversificata, con le regioni del nord più progredite economicamente e socialmente e soprattutto con una borghesia più intraprendente, e quella del sud, povera di industrie e commercio e spesso ancorata a rapporti sociali ed economici di stampo feudale. Proprio per questo il processo di unificazione, avrebbe richiesto maggiore attenzione da parte della classe dirigente verso la parte meno sviluppata del Paese. In pratica, però, nei primi decenni dopo l’unità d’Italia non era ancora chiaro ai più che esisteva una “questione meridionaleâ€. Fu quindi anche e soprattutto solo verso la fine dell’Ottocento, grazie al fenomeno dell’emigrazione, che il problema venne alla ribalta. Non si dimentichi che nei primi anni dopo l’unità la preoccupazione maggiore per il governo era l’ordine pubblico, visto l’imperversare del brigantaggio, duramente represso in molte aree dell’ex regno delle Due Sicilie. L’unico grande investimento che si fece per il Sud fu quello di ammodernare e sviluppate le vie di comunicazione: strade e ferrovie. Le risorse finanziarie necessarie alle esigenze del nuovo stato furono enormi. Così nel giro di pochi anni il prelievo fiscale nelle regioni del Mezzogiorno raggiunse livelli record: nel 1866 la sola imposta fondiaria salì del 40%. Nel 1868 fu applicata la famigerata “tassa sul macinato†che scatenò rivolte popolari gravemente represse e continuò ad essere applicata, con inasprimenti sino al 1876, per poi essere abolita solo nel 1880. Uno sforzo che la debole ed arretrata economia agraria del Sud non poteva sopportare. Ne risultò una forte disuguaglianza nella distribuzione del carico fiscale, sia tra i vari strati sociali della popolazione – ad essere colpiti erano soprattutto le classi più povere – e sia tra le varie regioni d’Italia. Tant’è che Nitti così si esprimeva all’inizio del Novecento: «L’Italia settentrionale in proporzione alla sua ricchezza paga assai meno allo stato e l’Italia meridionale assai più». L’indebitamento verso il fisco da parte dei piccoli proprietari salì vertiginosamente, tanto che le proprietà devolute al fisco tra il 1873 ed il 1901, anche per poche lire, arrivarono in tutt’Italia a quota 215.759, mentre circa 70.000 furono le vendite giudiziarie. Un altro importante fattore che danneggiò l’economia meridionale fu l’applicazione al nuovo stato della tariffa doganale del regno di Sardegna, che era bassissima in confronto a quella del regno delle Due Sicilie. Cosicché per il Sud la tariffa si ribassò improvvisamente dell’80%. Il risultato fu devastante, molte industrie del Sud furono costrette a chiudere, come gli zuccherifici; altre (cartiere, cotonifici, industria metallurgica, ecc.) entrarono in sofferenza per anni. Fu un colpo gravissimo per l’industria del Mezzogiorno che già non era molto sviluppata. Per contro furono favoriti gli industriali del Nord, che potevano contare sull’appoggio in parlamento di loro sostenitori, spalleggiati dai ricchi proprietari terrieri del Sud. Era poi inevitabile che la politica liberista dei dazi bassi favorisse le produzioni provenienti dall’estero, per cui le piccole imprese a carattere familiare non poterono reggere la concorrenza. Ad essere avvantaggiate furono quindi ancora una volta le industrie del nord, il cui bacino di consumo era rappresentato essenzialmente dal mercato interno del Sud, danneggiato nella sua produzione industriale. L’economia agraria d’Italia e del Mezzogiorno in particolare ne fu duramente colpita. Nel frattempo i grandi e medi proprietari terrieri acquisirono molte terre, frutto della vendita dei beni requisiti alla Chiesa e dei demani. La situazione, però, divenne insostenibile per le stesse industrie settentrionali tant’è che il governo, nel 1878, si vide costretto ad innalzare le tariffe doganali. L’intento era di proteggere la produzione tessile nazionale. Si rafforzava così la politica che puntava al monopolio dell’industria nazionale, cioè del Nord, mentre gli esportatori di prodotti agricoli, in maggioranza del Sud, venivano sacrificati. I prezzi delle derrate agricole calarono e così il reddito delle popolazioni contadine e dei lavoratori, ulteriormente colpiti dal rincaro del costo della vita. A ciò si aggiunse la crisi agricola europea del 1880, complice l’aumento notevole delle produzione degli Stati Uniti e dell’Argentina. Il grano americano a basso costo invase infatti il mercato con effetti disastrosi sui prezzi. La situazione precipitò verso il 1887, con il ribasso dei prezzi del 30% e l’inasprimento della tariffa doganale, compresa quella sul grano. La conseguente rottura dei rapporti commerciali con la Francia fece letteralmente crollare le esportazioni di vino verso quel paese da 3 milioni di ettolitri nel 1887 a 19 mila ettolitri nel 1890. Il vino infatti rappresentava un’importante voce economica per il contadino meridionale. Fu il colpo di grazia per tanti contadini meridionali. Contemporaneamente si ebbe l’espansione dell’economia nei paesi d’oltreoceano, prima Argentina e Brasile tra il 1870 ed il 1880 e poi negli Stati Uniti, dal 1879 al 1914 che attrasse una moltitudine via via crescente di immigrati. Si calcola che la sola Campania abbia perso tra il 1871 ed il 1951 ben 847.000 unità. Quando il problema, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, apparve in tutta la sua imponenza, gli economisti del tempo ne attribuirono la causa principalmente all’aumento demografico che aveva caratterizzato quel periodo, e conseguentemente al fatto che la terra da coltivare era insufficiente. E’ indubbio che l’aumento della popolazione abbia contribuito alla crisi, ma sicuramente i fattori politici ed economici di cui si è detto hanno avuto una parte preponderante nella genesi e nell’evoluzione del fenomeno. Nella provincia di Benevento il fenomeno migratorio iniziò prima dalle aree più depresse, soprattutto nel circondario di S. Bartolomeo in Galdo e poi a seguire Cerreto e Benevento.

Anni

Benevento

Cerreto Sannita

S. Bartolomeo in G.

1882-1884

150

807

1.479

1885-1894

4.160

8.640

7.030

1895-1904

13.000

15.880

8.930

1905-1914

35.720

22.550

16.510

Tot. trentennio

53.030

47.877

33.949

Tot. generale

134.856

Nel Sannio, a soffrire fu soprattutto la zona del Fortore, oggi costituita dai comuni dell’antico terzo circondario (meno Reino e S. Croce), e comprendente le zone dell’Alto Tammaro e dell’Alto Fortore, contrassegnate da uno squilibrio geologico, economico e sociale. Tutta l’area è caratterizzata da un forte isolamento, che ha visto nel corso del tempo una serie di progetti di sviluppo dei trasporti, praticamente tutti naufragati, mentre la strada a scorrimento veloce è ancor oggi in corso di realizzazione. Le altre aree della provincia sannita erano meno depresse, ma comunque anch’esse furono colpite in vario modo dal dramma della povertà. Una delle cause di fondo della debolezza dell’economia agraria di vaste aree della provincia, specie quelle caratterizzate da una morfologia collinare e dunque dominate dalla coltura del seminativo arborato è da ricercarsi nella distribuzione della proprietà contadina. Già alla metà del Settecento il fenomeno della parcellizzazione fondiaria incomincia a delinearsi con chiarezza. Un esempio lo abbiamo per l’agro di Ceppaloni (circa 1800 ettari coltivabili). A quel tempo praticamente tutti i terreni erano in possesso dei contadini: il 36% delle terre erano in piena proprietà, il 60% era tenuto a censo (47% enfiteutico e 13% perpetuo), mentre il restante 4% era in affitto. In linea di massima però il rapporto tra sussistenza e risorse era ancora favorevole. L’aumento demografico inizia già dalla seconda metà del Settecento e continua, anche se con a ritmi fisiologici, sino a metà Ottocento. Nell’ultimo ventennio del secolo XIX si registra un’impennata nella crescita della popolazione, con nuclei familiari formati da 8-10 persone in media. Ne consegue la polverizzazione della proprietà contadina. Contrariamente ad altre aree del Mezzogiorno il latifondo era poco diffuso nel Sannio. Si è invece in presenza, nella seconda metà del XIX secolo, di una diffusa piccola proprietà contadina che insiste in un’area collinare svantaggiata a causa delle pendenze e della scarsa fertilità dei suoli. Ma il problema di fondo risiede nel fatto che stante la ridotta quantità di terra per famiglia e la sola forza lavoro umana a disposizione, diminuiva la capacità produttiva. In pratica non avendo terra a sufficienza non è più possibile mantenere una coppia di buoi (il trattore del tempo). Peraltro il possesso dei buoi poteva consentire ad una famiglia di 4-5 persone di coltivare almeno 10 ettari. Diversamente, ovvero solo a zappa, la stessa famiglia non poteva coltivare più di 4-5 ettari. Il risultato finale è che una famiglia di piccoli contadini era incapace di coltivare una superficie maggiore di quella appena sufficiente alla sua sussistenza. Se a queste cause strutturali aggiungiamo la crisi generale che dovette affrontare l’Italia a cavallo tra i due secoli, capiamo bene come l’emigrazione sia stata la soluzione a portata di mano per molti diseredati stretti nella morsa della fame. Alle spalle lasciavano oltre alla miseria anche una realtà sociale fossilizzata da secoli di angherie ed ancora controllata da una ceto dominante costituito da notabili locali, dediti alla rendita parassitaria e ai prestiti usurai, ma anch’essa attanagliata dalla crisi e ormai in fase di declino.

 

Alfredo Rossi*.

 

Fonte: elaborazione su dati M.A.I.C., Direzione Generale di Statistica, Roma. da: "Arpaise - Storia di una comunità del Sannio" di V. NAPOLITANO V. e A.M. ZACCARIA, Edizioni Realtà Sannita, 1996.

Relazione alla tavola rotonda: “Il contributo del Sannio all’emigrazione italianaâ€, organizzata dall’ASMEF e dall’ass. Ecoitaliani, Ceppaloni, 24/07/2010.

*Medico Veterinario e studioso di storia locale. ( Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. )

 

 

 

 

 

 

 

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