Diario di un professore
di Domenico Rossi
Erano anni che stava buttato lì in mansarda quello scatolone. Aprendolo stamane, ho sentito le voci dei miei allievi. Quanti da trentacinque anni a questa parte! Non ricordo i cognomi ma i volti sì . Ricordo pure la “fame” che ho fatto da supplente di lungo corso ad ore annualmente variabili. La povertà, vegliata come un angelo dalla mia dignità, rimaneva nascosta dietro la facciata di mattoni rossi di cui era rivestita la mia casa.
Quello scatolone, dunque, contiene tutti i " pizzini" che i miei allievi mi facevano trovare sulla cattedra al mattino, quando volevano dirmi qualcosa a cuore aperto. Erano anonimi e scritti a stampatello affinché non potessi risalire al mittente. Mi chiedevano, però, di leggeri i in classe e cosi facevo. All'improvviso mi è balzato alla mente il mio primo giorno di scuola. Altro che dilettante allo sbaraglio. Fu vera corrida. Gli alunni parlavano a loro piacimento, si dimenavano nei banchi, ridevano fra loro, mi domandavano chi ero e da dove venivo. A nulla servivano i miei richiami all'ordine. Tutto a un tratto una ragazza mandata fuori da chi sa chi fece irruzione in classe gridando: "Ragazzi, ragazzi! La bidella è incazzata marcia perché dice che i maschietti quando vanno al bagno non riescono a fare centro e poi. .. c'è stato qualcuno che ha fatto la pipì sul davanzale della finestra ... " e a me che le facevo notare che c'era un professore in classe, mi disse col più bel sorriso: "Buongiorno Prof. siete nuovo, ma di che segno siete?" Questo scricciolo di femminuccia, non pochi fastidi mi diede durante l'anno. Era una femminista ante litteram, propugnava l'amore libero e la parità dei sessi. A tal uopo vestiva come i maschi. Grandi scarponi, soprattutto. Un giorno si alzò e proclamò: "È vero che esiste il puttanesimo, ma esiste anche il ricchionesimo" e rideva ... rideva. La sbattei fuori immantinente. Il compagno che le sedeva davanti, un deficitario diciamo nella volontà, trascinato agli studi dai genitori, spesso interrompeva la lezione con delle inezie ed io: "Ma a te chi ti ha interrogato?". "La prof. d'italiano all'ora precedente!" rispondeva alzandosi in piedi. "Ragazzi, se voi siete ignoranti io posso fare molto per voi. Ma se siete fessi non posso fare proprio niente" fu il mio commento. Ma ritorniamo all'indomani di quel primo giorno di scuola. Avevo il triennio in uno dei più vecchi e gloriosi istituti di Benevento. Mi avviai verso l'istituto alla Dio perdona e io no. Pensavo seriamente di appiccicarne qualcuno al muro. Salii le scale ripide con l'occhio assassino che roteava come una clava. Non vi è nessuno più bravo dell'alunno a percepire quando il professore ha le palpebre girate a tutto sesto. Come entrai in classe i discenti (termine aulico) ammutolirono di colpo. "Mettete i libri sul banco!". Salii in cattedra e sparai: "Ricordate che gli ideali sono come le stelle, non le possiamo toccare ma servono ad orientarci. Voi siete qui per questo. Per acculturarvi, crearvi degli ideali, dare un contenuto alla vostra esistenza e realizzare poi i vostri sogni. Tutto qui ma non è poco. Diversamente, la droga è li in agguato fuori il portone". Poi feci una tra le mie più belle e appassionate lezioni di Diritto. Parlai dei diritti umani. Realizzai subito che se il Prof. è preparato e ha voglia di lavorare, l'alunno non lo infastidisce. Questa è la condizione essenziale per stabilire un sereno, pacato dialogo con lui. Personalmente ho cercato di sviluppare nell'alunno il senso del comando su se stesso, per poterlo poi esercitare sugli altri. Da qui la disposizione ad alzarsi all'ora dovuta e non arrivare tardi a scuola. I ritardi mattutini erano motivo di incon tra me e alcuni recidivi. Mi sono risvegliato dai miei ricordi e ho dato un'occhiata allo scatolone che giaceva li incorrotto. L'ho aperto e mi ci sono buttato con la testa dentro. Vi ho trovato tanto affetto ma anche tanta ostilità. A causa dello spazio limitato non posso pubblicare per il momento i "pizzini". Ma uno lo ricordavo e ancor oggi nel rileggerlo, mi commuove. E' del '97. Leggo: "Caro Professore Rossi, voglio dirle che per me scrivere ciò che segue non è molto facile. E' la prima volta che parlo dei miei problemi ad un professore, per questo è un po' strano. Ma sono contenta di poterlo fare perché lei è un professore davvero grande, quello più vicino a noi ragazzi. Deve sapere che nel scriverle io ho abbattuto un muro che mi distacca dai miei stessi amici. Sono una ragazza fortunata in diverse cose, non ho problemi scolastici e di questo tipo. Forse per questo la vita ha voluto riservarmi una brutta sorpresa, una preoccupazione, un sacrificio che supera tutti questi problemi. Ho tre sorelle femmine, un padre pignolo e all'antica, mia madre lavora. La mia seconda sorella convive da ventidue anni con una sindrome poco diffusa che non le permette di seguire le date dei giorni che passano, di essere autonoma, di conoscere la vita di Petrarca perché non sa neppure chi sia. Sa parlare, camminare vedere la tv, ma non sa dire per esempio che ha mal di mola, il suo cervello non riesce a riflettere, a ragionare. Quello che capisce è l'affetto di tutti noi che la seguiamo e anche se ciò comporta sacrifici e rinunce, lo facciamo volentieri. Poche uscite, pochi divertimenti, ma tanta gioia nell'aiutare una sorella che se comprendesse quello che ogni secondo facciamo per lei ci ringrazierebbe sempre. ( ... ) Anche se so quello che più mi spaventa, cioè che per me la vita non continuerà ad essere facile come per tanti altri, soprattutto in un futuro nel quale perderò l'aiuto dei miei genitori, ma sono sicura che io insieme con le altre due sorelle, vinceremo la prova più dura della nostra vita, per noi l'esame più difficile". Compito del Professore è raccontare la vita, raccordandola alla propria materia d'insegnamento, ma quante cose mi hanno raccontato i nostri figli in trentacinque anni. Sono tutte lì in quello scatolone insieme alla loro giovinezza. Intanto per me va facendosi tardi.
